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Storia del vino di Orvieto.

Pubblicato da Maria Susana Diaz il 21/11/2013 | 13:27

Che l'etrusca Velzna corrisponda o no all'antica Oinarea - etimologicamente "la città dove scorre il vino" - menzionata in un testo un tempo attribuito erroneamente ad Aristotele, il fatto testimonia in ogni caso come la fama del vino prodotto a Orvieto avesse raggiunto già in epoca antichissima le sponde della Grecia. Gli Etruschi scavarono grotte nel massiccio tufaceo e misero a punto un sistema di vinificazione il cui esito era una bevanda dalle caratteristiche organolettiche singolari: aromatica, profumatissima e di colore giallo dorato. Lavoravano e vinificavano nel fresco di alcune cantine realizzate su tre piani. Non mancate di visitare l'Enoteca Regionale dell'Umbria presso il Palazzo del Gusto di Orvieto, dove ne potrete vedere una, e osservandola vi sarà facile capire come avvenisse la vinificazione. L'uva si pigiava a livello del suolo (primo livello) e il mosto, attraverso apposite tubature di coccio, colava nei locali sottostanti (secondo livello) in cui fermentava. Dopo la svinatura il vino veniva trasferito a un livello ancora più profondo (terzo livello), adatto per la maturazione e la lunga conservazione.

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C'è un documento eccezionale dell'epoca etrusca che testimonia la presenza del vino nella vita quotidiana, nella religione e nei riti di questo popolo: è la rappresentazione del banchetto funebre affrescato nella tomba Golini I, detta anche dei Velii. La tomba è ubicata sul Poggio del Roccolo davanti alla rupe orvietana mentre l'affresco originale, che vi consigliamo vivamente di visitare, è conservato al Museo Archeologico Nazionale in Piazza del Duomo. Nella metà di sinistra sono raffigurate le fasi preparatorie del banchetto, dalla macellazione delle carni fino alla loro cottura nel forno, alla predisposizione sui tavoli, da parte dei servi, delle bevande e dei cibi, tra cui si riconoscono bene dei grappoli d'uva. Nella metà di destra è dipinto invece il convivio vero e proprio, presenziato da Ade e Persefone e illuminato da candelabri, con i banchettanti distesi su klinai e allietati da suonatori di tibia e di cetra. Un demone femminile alato, raffigurato sulla parete d'ingresso, accompagna il defunto sopra una biga nell'oltretomba. Nella rappresentazione del banchetto, consumato sullo sfondo di una dispensa aperta, con carni appese e anfore di vini, oltre ai parenti dei Velii e agli dei dell'Averno è rappresentata la figura di un giovanetto che, con fare attento, strizza dei grappoli d'uva con le mani per farne vino. Ulteriore testimonianza di quanto l'Orvieto etrusca sia stata strettamente legata alla produzione vinicola, è poi la grande quantità di contenitori per il vino rinvenuti nella necropoli orvietana: stamnoi, krateres, skyphoi, kantharoi, kilikes, oinokoai che potrete ammirare nei due splendidi musei archeologici della città, il già menzionato Museo Archeologico Nazionale e il Museo "Claudio Faina", anch'esso in Piazza del Duomo.

Sicuramente avrete visitato qualche cantina e osservato quanto le nuove tecnologie siano oggi essenziali nella produzione vitivinicola, ma ora dimenticate ogni processo sofisticato e provate a immaginare la ben più semplice vinificazione al tempo degli Etruschi. Facevano il vino totalmente a crudo e non conoscevano la cottura del mosto. Prediligevano e vendemmiavano l'uva perfettamente matura, la trasportavano nelle cantine in racemi interi con casse di legno caricate da bestie da soma e depositavano il tutto in un tino fatto a tronco di cono. Una volta che il tino era pieno, un uomo a piedi nudi vi saliva sopra, premendo fino a frantumare e ad ammostare i chicchi. Poi si aggiungeva acqua nel tino, all'incirca fra un ottavo e un decimo delle some dei grappoli depositati. Il mosto che se ne ricavava era appena la metà dell'uva, la fermentazione si compiva fra i cinque e gli otto giorni, la verifica veniva fatta con un assaggio finale in piccoli contenitori da alcuni esperti selezionati che si riunivano a banchetto. Terminata la fermentazione, si spillava il vino per travasarlo nella botte, in modo che uscisse dalla cannella spoglio di feccia. Si procedeva allora a un ulteriore momento della vinificazione: l'uomo entrava nel tino e iniziava ad ammostare gli acini che non erano stati bene infranti o che erano rimasti fra le vinacce, finché attraverso le fasi della svinatura si arrivava ad avere un vino di qualità B. Interessante notare, a questo proposito, una brocca con la scritta "VINO B" presso il Museo delle Maioliche Medievali di Via della Cava.

Gli Etruschi facevano del vino un commercio fiorente, con avventurose spedizioni verso il Nord Europa; altrettanto i Romani che, nel periodo del loro dominio sulla città, lo inviavano a Roma attraverso il porto fluviale di Palianum dove, in epoca recente, sono state ritrovate numerose anfore vinarie.

vino orvieto dolce

Il vino nel Medio Evo.

L'importanza del vino di Orvieto nel Medio Evo trova testimonianza nella grande quantità di coppe, tazze e boccali in ceramica recuperati nei butti medievali a partire dai primi anni del Novecento. È provata inoltre da molti documenti medievali attestanti la grande considerazione per la prestigiosa bevanda da parte del Comune di Orvieto, che emana numerose disposizioni sia per favorire l'espansione della viticoltura, sia a salvaguardia dei consumatori.

Nel 1192, a conclusione dell'assedio alla città da parte di Enrico IV, il Comune di Orvieto concesse esenzioni dalle tasse a quanti avessero piantato viti. Attorno al 1200, nel giuramento prestato dai Consoli prima di prendere possesso della città, è detto che avrebbero protetto le strade, i luoghi più importanti del territorio e, naturalmente, le vigne. La "Carta del Popolo", codice statutario del Comune medievale di Orvieto, contiene un'apposita rubrica, la 61, destinata alle pene da applicare a quanti deturpino le vigne altrui. Il Catasto del 1292, il documento più antico che dettagliatamente descrive il territorio orvietano, testimonia la presenza delle vigne in tutti i pivieri, castelli e ville del contado. E se il territorio era costellato di vigne, la città non era da meno; sulla rupe e sul suo declivio, la vite era la coltura predominante.

Nello Statuto di Viceno, piccolo borgo delle campagne orvietane, è emblematico leggere di come in tutto il territorio di Orvieto si tendesse a controllare la coltivazione della vite. Sanzioni specifiche erano imposte a chi facesse "pampine" o "frasche di vite" fuori dal periodo della potatura e a chi tagliasse "i cardeti" e le siepi che racchiudevano le vigne.

Le vigne erano, dunque, un luogo protetto dalle leggi statali, e nel 1295, per verificare il rispetto delle disposizioni, i Consoli nominarono i "Custodi delle vigne", che avevano il compito di controllare le piantagioni, la produzione e l'andamento delle attività nei vari periodi dell'anno.

Quanto alla produzione e al commercio del vino, da sempre punto di forza dell'economia orvietana, sebbene si conosca la loro importanza fin dall'antichità, è soltanto con il Medioevo che, attraverso i documenti, se ne può avere un quadro preciso. Gli statuti della Colletta del secolo XIV tendono a puntualizzare il più possibile la vendita, la qualità, la quantità. Il più antico, datato 1304, riporta tutti i tipi di vino presenti in Orvieto e le relative tasse, evidenziando naturalmente il protezionismo verso il vino locale e l'interesse della città a favorirlo rispetto a quelli di fuori. Oltre al cosiddetto vino puro ricavato dal mosto delle uve locali e che in certa misura si commerciava allungato (acquatico), si importavano a Orvieto altri vini, come il vino greco (di Napoli), la guarnazza (vernaccia di Genova) e il vino marchesiano (proveniente dalle Marche). Dall'importazione dei vini al trapianto di altri vitigni il passo fu breve e così il trebbiano e il moscatello si aggiunsero, oltre al greco e alla vernaccia, ai vitigni autoctoni. Simone Prudenzani, poeta orvietano del XV secolo, nel suo Sollazzo elenca un'infinità di vini "stranieri" presenti sulle tavole orvietane.

orvieto abbocato

Il vino di Orvieto e i suoi estimatori.

La rinomanza conquistata dal vino di Orvieto in epoca etrusca tornò a brillare e a diffondersi, in epoca medievale e rinascimentale, grazie a vescovi, cardinali e papi che soggiornarono più o meno a lungo sulla Rupe e dintorni. Tra i pontefici, Adriano IV, Urbano IV, Martino IV, Clemente VII scelsero Orvieto per sfuggire alle insidie della Roma papale; e negli anni in cui Orvieto fu residenza pontificia, verso Roma venivano spesso inviati fusti del celebre vino destinati a importanti personaggi. Non a caso, il vino di Orvieto comincia allora a essere definito e conosciuto come "vino dei papi".

Tanti sono gli aneddoti che raccontano come la qualità del vino di Orvieto sia stata sempre apprezzata da noti intenditori. Papa Paolo III Farnese lo preferiva a ogni altro e Gregorio XVI volle che il suo corpo fosse lavato con questo vino prima della sepoltura. È poi storia da molti conosciuta quale ruolo significativo abbia avuto il vino nella costruzione del Duomo di Orvieto. I maestri che lavoravano tra il 1347 e il 1349 nella cava di Monte Piso per estrarre e sgrezzare la pietra di travertino ne acquistavano in grandi quantità insieme alle panatelle, per poterlo degustare mentre erano lontani da Orvieto. E la stessa Opera del Duomo lo regalava in molte occasioni, ad esempio a compimento di lavori importanti del cantiere. Ma il dato che più colpisce è trovarlo espressamente richiesto nei contratti di lavoro sotto forma di pagamento. Nel 1496 il contratto stipulato tra l'Opera del Duomo e il Pinturicchio concede al pittore "sei quartenghi di grano per ogni anno... e il vino necessario". Nel 1500, nel contratto stipulato tra l'Opera del Duomo e Luca Signorelli per la realizzazione degli affreschi della Cappella di San Brizio, è scritto che l'Opera era tenuta a consegnargli ogni anno 12 some di vino (circa 1000 litri).

orvieto vini

Per andare avanti nei secoli, quanto fosse stimato e desiderato il vino orvietano è espresso, in modo sagace e divertente, nella petizione presentata per voce di Pasquino a Papa Paolo V Borghese, il giorno dell'inaugurazione dell'acquedotto romano all'Acqua Marcia alla fine del 1600:

il miracolo è fatto, o Padre Santo,
con l'acqua vostra che ci piace tanto;
ma sarebbe il portento assai più lieto,
se l'acqua la cangiaste in vin d'Orvieto.

Giuseppe Gioacchino Belli in una vivace espressione nelle Regole contro l'ubriacature - sonetto del 1835 - sottolinea come il "bianco di Orvieto" fosse considerato "il vino delle grandi occasioni" per le sue eminenti qualità rispetto ai vini comuni e fosse destinato esclusivamente alle tavole dei potenti e di coloro che ne potevano pagare l'alto prezzo. Procedendo con testimonianze ancor più vicine alla nostra epoca, si sa che il vino di Orvieto fu usato da Garibaldi e dai suoi Mille, prima di lasciare il porto di Talamone, per brindare all'avventura siciliana. Un valoroso ufficiale toscano, Giuseppe Bandi, segretario particolare del generale, così narra : "La mia comparsa fu salutata con un grido dagli amici e da quell'ottimo uomo del Generale (Garibaldi). Mi fé cenno di avvicinarmi a lui e porgendomi un bicchiere colmo di vino d'Orvieto mi disse: bevete anche voi alla buona fortuna d'Italia". Ed è vanto e gloria per gli orvietani che Sigmund Freud, in visita a Orvieto nel 1897, scrivendo una cartolina alla moglie Martha, le parlasse del Duomo e del vino, che definisce "famoso" e "simile al Porto": accostamento che può apparire curioso, ma che in realtà evidenzia la caratteristica prevalente dell'Orvieto di una volta, quella di un vino dolce da altri paragonato al passito per eccellenza, il Sauternes francese.

L'Orvieto bianco da abboccato a secco.

Sebbene non si possa affermare con sicurezza che le registrazioni della Colletta si riferiscano alla totalità del vino introdotto in città, l'egemonia del bianco appare incontrastata fin dal Medio Evo e rappresenta i tre quarti del vino di Orvieto. E il bianco di cui si parla era quello abboccato, leggermente dolce a causa della conservazione a bassa temperatura nelle grotte dove venivano collocate le uve per farle diventare mosto. Il tipo abboccato per molti secoli costituisce l'Orvieto da tutti preferito e la tipologia maggiormente prodotta. A partire dalla seconda metà dell'Ottocento comincia però a essere incentivata la produzione del tipo secco, sia per necessità industriali sia per permettere una migliore utilizzazione delle uve ricche di acidità prodotte nelle posizioni meno favorite e nelle annate peggiori.

Nel 1860 un orvietano di grande coraggio, Giuseppe Simoncini, inizia ad allargare l'area di commercializzazione dell'Orvieto introducendolo in Toscana, soprattutto a Firenze, e assicurando rifornimenti regolari e rapidi al mercato di Roma. Presenta poi il vino delle campagne orvietane a viaggiatori stranieri , cercando di capirne le esigenze e i gusti, e il frutto di questa indagine sul cliente conduce alla creazione dell'Orvieto secco, che oltretutto non dava, quanto a stabilità, le preoccupazioni dell'abboccato e che mostrava per l'economia locale grandi vantaggi.

Giorgio Garavini, ispettore generale del Ministero dell'Agricoltura e delle Foreste, che nel 1931 delimita la zona di produzione del vino tipico di Orvieto, sottolinea come il tipo abboccato rappresenti ancora in quegli anni l'Orvieto più largamente apprezzato e diffuso, ne descrive "il profumo di uva, il dolce gradevole, il leggero frizzante dell'anidride carbonica prodotta dalla lenta fermentazione" ed elenca le sue caratteristiche organolettiche: "color giallo oro pallido, limpido, profumo aggraziato molto rassomigliante a quello di uva fresca, con abbondanza di eteri, sapore soavemente dolce, piuttosto accentuato, con retro gusto leggermente amarognolo come di mandorla, frizzante per l'anidride carbonica prodotta da lenta fermentazione, alcolicità che va da 10°,5 a 11°,5 ed anche a 12°". Garavini afferma poi che "Il vitigno base per la produzione del vino di Orvieto è il Trebbiano o Procanico, che entra nella costituzione per circa la metà. Sono inoltre impiegati piccoli quantitativi di uve pregiate che vanno sotto il nome di Biancami (Malvasia, Durupeccio, Nocchiello o Grechicchio) o poco pregiate come quella chiamata Montonico, o discusse come quella detta Verdello".

Nel tipo secco scompare quasi completamente lo zucchero e solo raramente il vino resta leggermente amabile; aumenta in corrispondenza il grado di alcolicità, che in questo caso arriva fino a 13° e qualche volta li oltrepassa. Con la legge del 1931 si riconosce la tipicità al vino Orvieto e la delimitazione dell'area di raccolta delle uve, che è quella indicata dall'insigne agronomo Prof. Giorgio Garavini nel suo accurato studio, e corrisponde alle grandi linee tracciate cinquant'anni prima da Giuseppe Simoncini. Nella zona sono comprese le località di Orvieto, Baschi, Ficulle, Monterubiaglio, Porano, Castel Giorgio, Allerona.

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A proposito di: Maria Susana Diaz

Ho deciso di aprire questo blog, per condividere insieme ad altre persone la passione che ho per la cucina, da qui il titolo del blog, non mancheranno ricette classiche, rivisitate, personali e cercherò di spaziare il più possibile. Le ricette che troverete rispecchiano il mio quotidiano, spero di riuscire per quanto sia la mia modesta esperienza di poter esservi utile nei miei consigli, perchè qualunque cosa decidiate di fare, la cucina richiede tempo, amore e passione.

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