L’Aquila: una città che nel XII secolo aveva già licenza di tenere due fiere generali annuali, ciascuna della durata di venti giorni, e tre mercati settimanali. Un ruolo conservato per secoli, fino a divenire un sicuro punto di riferimento nell’epoca della grande fioritura mercantile dei secoli XIV e XV. In particolare, l’allevamento del bestiame ovino è stato, in ogni epoca, a base dell’economia della “conca” aquilana.
Un allevamento che, attraverso le diverse epoche, si è organizzato sull’alpeggio o sulla tradizionale e “romantica” transumanza. Un brevissimo cenno storico, questo, che non vuole assolutamente elevare il discorso che stiamo per intraprendere al rango della “dotta dissertazione” , ma tende ad introdurre l’argomento della cucina locale, che non può fare a meno di elementari riferimenti storici per essere approfondito.
Parlare di cucina locale, in un’area vastissima come è quella della provincia dell’Aquila è compito assai arduo, ma vogliamo ugualmente provarci per riunire sotto un unico simbolo la gastronomia dell’Abruzzo interno: da Montereale, con i suoi collegamenti umbro-marchigiani, a Balsorano, legata alle tradizioni del basso Lazio, dalla cucina marsicana, storicamente caratterizzata dai prodotti del fertilissimo Fucino, alla consorella ovidiana, incanalata dalla storia millenaria del popolo peligno, la pastorizia regna incontrastata, avendo anche, con la transumanza, ruolo di ambasciatrice della tradizione culinaria abruzzese nelle terre interessate dalla migrazione delle greggi, soprattutto le Puglie.
La cucina aquilana, anche se qualcuno, per esigenze commerciali, ha voluto farci credere il contrario, non è la cucina dello zafferano e del tartufo (due simboli del territorio destinati, però, altrove), ma è la forza di riproporre sempre in maniere diverse e stuzzicanti prodotti poveri come la polenta, il farro, il formaggio con la muffa, le frattaglie, i legumi. Il prezioso Crocus della Piana di Navelli o la profumatissima trifola della valle Subequana non hanno fatto che timidissime comparse tra i fornelli scoppiettanti di corpose zuppe di fagioli e di dorati sfarinati di mais pronti ad allietare una “spianatora” circondata da un numero sempre crescente di commensali.
La polenta col tartufo, per disgrazia o per fortuna (lasciamo al lettore il compito di giudicare) non ci appartiene. Il pastore o il contadino della valle dell’Aterno che grazie alle inaspettate capacità di un cane cresciuto con le “scorze” di formaggio avevano avuto la fortuna di imbattersi con il prezioso fungo ipogeo, il tartufo, ringraziavano Dio per la grazia ricevuta e barattavano la trifola, in alcuni casi vista addirittura con diffidenza, con qualche litro d’olio e con l’agognata pasta bianca.
Ed è la pasta l’altro tema conduttore della tavola aquilana, dalle alture del Gran Sasso alle pianure del Fucino. Un prodotto che ha aiutato più di una generazione ad uscire da difficilissimi periodi di crisi. La pasta, che nelle sue multiformi pezzature è figlia della vecchia e amata chitarra, lo strumento di cui più di una regione vanta la paternità. Il suo inventore non ha depositato il progetto all’ufficio brevetti ma la sua genialità è confermata dall’uso quasi mistico delle sue corde, pronte a vibrare armoniosamente sotto il “pizzico” del maestro pastaio. Una armonia che accompagna i maccheroni alla chitarra fino alla tavola imbandita della festa, di cui la pasta all’uovo, quella rigorosamente fatta in casa, resta l’incontrastata e ineguagliabile protagonista.
E a proposito di festa (la tavola nella sua accezione più classica è infatti il momento clou di ogni ricorrenza) il nostro approfondimento non può non soffermarsi sulla pantagruelica panarda ricordata nei suoi scritti dal giornalista aquilano (di Paganica, per l’esattezza) Edoardo Scarfoglio, marito della scrittrice napoletana Matilde Serao. Una lunga teoria di piatti, minimo 36, per salutare un evento tanto atteso: un matrimonio, la rappacificazione tra due famiglie, la nascita del primogenito. “Se è maschio, ammazzo la vitella!” si diceva. E proprio per onorare la grande occasione si soleva, nell’aquilano, dare fondo alla dispensa di famiglia.
Magari arrivando a macellare l’unica vitella posseduta per dimostrare agli amici (e ai nemici!) riuniti attorno allo stesso tavolo l’opulenza della famiglia e per festeggiare insieme la lieta occasione. Il banchetto che ne scaturiva veniva appunto chiamato “panarda”, vocabolo derivato forse da “panaro”, il grande cesto di vimini usato per trasportare pane, formaggi, salumi, e comunque sinonimo di abbondanza. La “panarda”, quindi, assume nel tempo significato di indicatore sociale, di termometro dei beni di famiglia. Serve per apparire e per appagare, almeno per un giorno, il desiderio di cibo. Ecco il motivo per cui, oggi, la panarda è passata un po’ di moda: gli indicatori sociali sono mutati, gli status symbol anche. Si mangia troppo e male. La dieta è diventata un imperativo legato al mito della bellezza e dell’eterna giovinezza. E, quello che è ancor più grave, abbiamo tutti sempre meno tempo da trascorrere seduti a tavola, dove, a dispetto dei teorici del grissino, un antico adagio dice che… “non si invecchia”.
E proprio intorno alla tavola, per prolungare questa nostra immortale giovinezza del gusto, vogliamo intraprendere un viaggio a volo d’aquila (è proprio il caso di dirlo) tra i piatti più stuzzicanti.
Partiamo dal pane, l’insostituibile compagno di ogni viaggio gastronomico che si rispetti. In provincia dell’Aquila, in attesa di una Doc in grado di salvaguardare e valorizzare la tradizione, l’arte del panificatore viene tramandata di padre in figlio. In ogni angolo della provincia escono dai forni (molti dei quali, per fortuna, ancora a legna, nonostante la discutibile e repressiva normativa Ue) profumatissimi filoni, fragranti pagnotte, inimitabili pizze che vengono esportati nel Nord Italia o addirittura negli Stati Uniti. Bianco, nero (per la presenza di farina integrale) o giallo (per l’uso dello sfarinato di mais) il pane aquilano ha conquistato anche i palati più esigenti (insostituibile con la bruschetta) e attende ora un riconoscimento in grado di inserirlo in un mercato sempre più difficile (la ciabatta polesana e il suo inventore insegnano).
Il trionfo del gusto continua poi con i primi piatti: asciutti, in brodo, a zuppa. Frutto di una terra in alcune zone particolarmente avara, i piatti d’apertura sono tradizionalmente legati alla fantasia, quella di generazioni di massaie che hanno dovuto spesso fare i conti con le ristrettezze del bilancio, con madie pressoché vuote e con una vasta prole sempre affamata.
Il piatto della festa era ed è rappresentato dai maccheroni alla chitarra, impreziositi dal sugo di castrato o di maiale e imbiancati dal pecorino di Pizzoli, di Castel Del Monte, di Anversa Degli Abruzzi. L’uovo sodo, in quantità non certo dietetiche, insaporisce il timballo all’aquilana, farcito di scamorza e di carne macinata di maiale e di vitello. Le volarelle accompagnano indistintamente un corroborante brodo di carne e una bella zuppa di lenticchie, quelle di Santo Stefano di Sessanio, le uniche a non aver bisogno di ammollo prima della cottura. La zuppa di farro, nella variante con cicoria selvatica, viene preparata nei centri montani del Parco Nazionale d’Abruzzo con particolare maestria, mentre a Paganica regnano i fagioli, con le loro infinite varianti che li collocano come prodotto da tutto pasto. In inverno, e in particolare nella festività dedicata a Sant’Antonio, si usa accompagnarli con la cotica di maiale a tocchetti, ben sgrassata, mentre nei periodi più caldi, specialmente dopo il raccolto, si propongono con rinfrescanti erbette aromatiche.
La “spianatora”, rigorosamente in legno d’ulivo, accoglie fumanti polente che nulla hanno a che fare con le cugine venete o valdostane, sempre figlie del granturco, ma con macinature decisamente più grossolane che influiscono in maniera determinante sulla finezza del sapore. La polenta aquilana, nella ricchezza o povertà del condimento, con abbondanti spuntature di maiale in salsa rossa o con la semplice pancetta (sempre di maiale) soffritta nell’olio con generoso peperoncino, è un piatto unico che non ha eguali sul territorio italiano.
Per i secondi, dopo aver più volte decantato il ruolo e le qualità della carne ovina, non possiamo non partire dallo spezzatino di agnello con l’aquilanissimo uovo e limone. Una leccornia non certo facile da preparare per la tendenza dell’uovo sbattuto a trasformarsi in… frittata. E, ancora, l’ormai rarissimo castrato in umido, con carota, sedano e peperoncino, o la coratella d’agnello con i sottaceti, il piatto forte della tradizionale colazione di Pasqua. Spazio anche al pesce, ma “d’alta quota” con il coregone del lago di Campotosto arrosto o in guazzetto o l’ormai introvabile trota del fiume Vera, un tempo comune nelle acque che per secoli hanno alimentato le cartiere e le ramerie di Tempera.
Sul fronte dei salumi ogni comunità della provincia vanta una propria cultura: il prosciutto nostrano, con minimo due anni di stagionatura, riesce a competere con i parenti più ricchi e prestigiosi di San Daniele e di Parma; le salsicce sono caratterizzate dai due eccessi del gusto, il piccante e il dolce, per un connubio di sicura riuscita. Unica nel suo genere la salsiccia di fegato dolce, ingentilita dall’inatteso uso del miele nella fase dell’inseccatura.
E poi i salami, le lonze, e la famosissima e inimitabile mortadella di Campotosto (ormai quasi estinta), attraversata da un selezionatissimo lardello che la rende inconfondibile. Solo carne magra di prima scelta sminuzzata grossolanamente con la mezzaluna. La pasta, condita unicamente con sale e pepe, viene poi insaccata nel budello con la listarella di lardo al centro. La stagionatura viene affidata al camino o alla stufa per prendere quel delicato senso di fumo che la rende così stuzzicante.
Passando ai latticini il pensiero va immediatamente alla scamorza che si ottiene con una diversa e più lunga lavorazione del latte rispetto alle più famose mozzarelle. La scamorza, (eccellente quella di Rivisondoli, frutto della bravura dei casari e della bontà del pascolo) dalla forma di un piccolo caciocavallo, viene cotta allo spiedo dopo un breve periodo di appassimento che contribuisce a rendere più soda e saporita la pasta.
Sul podio più alto della categoria dei formaggi domina incontrastato il pecorino, prodotto in molti centri montani dell’aquilano: da Calascio e Castel Del Monte a Secinaro, da Pizzoli (il più “introdotto” in ambienti romani) a Scanno e Anversa Degli Abruzzi. Il formaggio della tradizione abruzzese, al contrario dei cugini sardi o laziali, non ha al momento un marchio di tutela e questo potrebbe col tempo comprometterne la qualità. Diversi i tipi di stagionatura, legati naturalmente al peso della forma. Con 60 giorni in genere si è al top, con 90, dicono gli intenditori più portati ai gusti forti, si ha un formaggio decisamente più impegnativo, ottimo sulla pasta asciutta.
Chiudiamo questa carrellata con l’immancabile dolce, in questo caso il torrone tenero al cioccolato prodotto a L’Aquila dalla fine del XVIII secolo. Una vera e propria rivoluzione nel mondo del torrone classico che vanta una serie interminabile di malriuscite imitazioni.
Dimenticavamo! Esiste anche una proposta per facilitare la digestione dopo un’esperienza gastronomica così impegnativa: è il citrato prodotto dalla leggendaria azienda Pelino di Sulmona. Frizzanti e stimolanti bollicine per farsi perdonare qualche peccato di gola di troppo!
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